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L’appello di Dez

STELLA

Desireé è per me amica e compagna. Condivido con lei idee, sogni e incubi.
Ed Agripunk, il rifugio creato e gestito da lei e David, rappresenta per me, ad oggi, un caso unico, un laboratorio di quel che dovrebbe essere davvero l’antispecismo. Un esempio di quel che un rifugio antispecista dovrebbe essere: un luogo di libertà, di ospitalità, di dibattito, cultura, crescita, confronto.
Condivido la sua nota.
Ed invito a supportare il suo sogno, che è anche il mio.

E’ ancora attiva la nostra campagna di raccolta fondi #supportAgripunk su Gofundme
Con i soldi fin’ora raccolti siamo riusciti a:
  • saldare 6 mesi di affitto arretrato (mancano altri 6 mesi da dare entro novembre più l’affitto da novembre in poi);
  • pagare conti sospesi con i rivenditori di frutta e verdura per gli animali (il recupero al mercato da solo non basta);
  • passare indenni la siccità di questa estate che ha causato e sta causando l’abbassamento del livello di falda acquistando 4 cisterne da 15.000 metri cubi d’acqua e ripristinando nel frattempo il 3° pozzo acquistando una nuova pompa che porta acqua alla cisterna;
  • dobbiamo rifare magliette e gadget vari per i banchini di raccolta fondi;
Vi chiedo quindi di continuare a supportarci, anche con una piccola donazione, e di ricondividere questa mia nota di giugno.
Anche la sola condivisione fa molto e ricordo che l’aiuto nelle gestione dei social, le condivisioni, la creazione di gruppi di supporto, l’aiuto fisico anche solo per una settimana possono aiutarci tantissimo essendo rimasti ora in 2 belve umane ad abitare qui stabilmente.
Vi ringrazio sin d’ora per qualsiasi tipo di aiuto vogliate darci.
“Sono nata in un paesino di campagna in provincia di Venezia e ho studiato scultura all’istituto d’arte a Padova.
Fino all’inizio del 2013 facevo la restauratrice di affreschi, sculture di marmo e legno, stucchi e intonaci.
Un bel lavoro, mi piaceva davvero molto anche se non era proprio così leggero (si, anche un* vegan* può fare il muratore o quasi) e m’ha distrutto una spalla.
Fin da piccina ho conosciuto gli animali vivi e liberi nel loro ambiente, chiusi e sfruttati nei piccoli e medi allevamenti della zona, morti e appesi dopo essere stati cacciati.
Ho visto maiali sgozzati e fatti diventare salami, lepri scuoiate appese a sgocciolare dai fili per il bucato, mucche munte mentre vitelli bevevano latte ricostruito da un secchio, pesci appesi all’amo per essere lasciati a morire al sole
…ed era tutto normale.
Un giorno ha iniziato a darmi fastidio tutto questo e all’improvviso, nel 1995, tutto questo non fu più normale.
Decisi di colpo di smettere di mangiare carne e pesce, perché in mezz’ora di filmato vidi condensate tutte le violenze compiute nel nome del dominio, della mercificazione e dello sfruttamento.
Portai avanti la mia personale battaglia fino al natale del 2009 quando capii che ero incompleta, che stavo ancora sempre e comunque condannando qualcuno.
Smisi di mangiare anche latte, uova e derivati vari, di usare prodotti testati, di finanziare le multinazionali, di usare la pelle per vestirmi.
Iniziai ad usare i social (prima non avevo nemmeno il computer praticamente) e iniziai a conoscere persone che abitavano vicino a me e che erano vegetariane prima e vegani poi.
Mettemmo su un piccolo gruppetto locale e andavamo a fare volontariato in canile e banchini informativi.
Poi con un altro gruppo locale partecipai a tante iniziative e ho partecipato anche a campagne e cortei di altre associazioni, sindacati e coordinamenti dove ho conosciuto la maggior parte di voi.
Nel frattempo conobbi il mio compagno, David, che era stato vegetariano (ma deluso dalla mancanza di concetti antifascisti nell’animalismo) e che abitava accanto ad un allevamento di tacchini in un podere in Toscana che da tempo sognava di poter prendere e trasformare in qualcosa di diverso.
Iniziammo a discutere di antispecismo e smise di nuovo di mangiare animali e di contribuire al loro sfruttamento.
Nel 2013 sono stata messa in mobilità e poi licenziata così mi sono trasferita da lui ad Ambra, ed insieme abbiamo lavorato per oltre un anno per far chiudere l’allevamento, cosa accaduta a fine maggio del 2014.
Abbiamo cercato sostegno per non farlo riaprire e abbiamo creato qualcosa che fosse al suo esatto opposto: da luogo di prigionia a luogo di liberazione usando tutte le nostre forze e i nostri soldi.
Abbiamo faticato tantissimo ma alla fine abbiamo trovato il supporto per iniziare.
Ad aprile del 2015 abbiamo fondato la Agripunk onlus, la nostra associazione per la tutela di animali e ambiente, con lo statuto incentrato sulla conversione e rinascita di questo podere composto da 3 appartamenti, 2 case, vari fondi, i 7 capannoni dell’ex allevamento, 5 ettari coltivabili inclusi vigneti per fare il vino ed ulivi per fare l’olio, oltre ad altri 20 ettari di prati, boschi, sorgenti, torrenti e un lago dove poter lasciar pascolare liberi gli animali liberati e dove dare riparo dalla caccia a quelli selvatici.
Per un totale di 26 ettari ossia 260.000 metri quadri.
Il tutto dedicato a quegli animali e umani che riescono a liberarsi o essere liberati dallo sfruttamento e dall’uccisione.
Il tutto senza mai sfruttare o usare nessuno di loro, mai.
A novembre 2015 abbiamo stipulato un affitto a riscatto con i proprietari del podere, non con l’allevatore.
Agripunk così è diventato un rifugio per animali di ogni specie: polli e papere, maiali e conigli, pecore e capre, mucche e asinelli.
Attualmente vivono qui oltre un centinaio di animali e molti altri ancora potrebbero arrivare.
Ma non solo. E’ anche un laboratorio di autoproduzioni e creatività.
Abbiamo tantissimi progetti in cantiere: sala prove per le band, recupero tecnologia usata, recupero mobili, sciroppi e preparati con le erbe spontanee, organizziamo eventi informativi sulle lotte contro il dominio e contro ogni forma di sfruttamento animale, umano e non umano, facciamo recupero e riproduzione di semi e piante, vogliamo creare laboratori di artigianato e artistici insomma vogliamo creare tutta una serie di cose che ci permettano tra qualche anno di essere autosufficienti fino ad arrivare ad aiutare anche altre realtà e persone bisognose.
Siamo tutti volontari, non mettiamo mai un prezzo per fare un profitto, chiediamo un offerta libera per supportare il posto.
Da un pò di mesi parte di quel supporto iniziale è venuto meno nonostante la nostra continua disponibilità e siamo in difficoltà.
Tutto quello che è stato fatto fino ad ora non ha avuto il sostegno che meritava.
In pochi hanno compreso che le spese che affrontiamo per l’affitto le affronteremo comunque se gli animali fossero 10, 100 o 1000.
Dico 1000 perché questo è il potenziale di questo posto, tra grandi e piccoli animali, e se ognuno di coloro che ha a cuore la questione animale, l’antispecismo o anche solo se ognuno di coloro che hanno contribuito a salvare gli animali che già abitano qui ci supportasse con una quota minima mensile, ce la faremo in un attimo.
La nostra pagina è seguita da più di 6000 persone.
Un euro a testa sarebbero 6000 euro al mese ossia 2 mesi interi di affitto più altri fondi per pagare il cibo per gli animali, i materiali per i lavori, le attrezzature per iniziare tutte le attività che abbiamo in progetto (ad esempio una cucina a norma asl, impianto per serigrafia, un forno per il pane, altri pozzi per l’acqua, attrezzi per coltivare, materiale per recintare l’intero perimetro, ciò che serve per rifare i capannoni e trasformarli per bene in stalle, fienili, serre)
Il potenziale abitativo è per almeno 10 persone con le quali suddividersi i vari compiti.
E nel giro di un paio di anni si arriverebbe all’autosufficienza, con la possibilità di dare un tetto anche a chi ne ha realmente bisogno ma non ha nulla da dare, se non la propria buona volontà.
Ora siamo rimasti solo in 2 a vivere qui stabilmente insieme a volontari che stanno venendo ad aiutarci… ce la facciamo però iniziando al mattino presto ed andando a dormire a notte fonda.
Se avessimo qualcun altro che ci aiuta anche fisicamente costantemente sarebbe tutto più semplice sia la gestione quotidiana sia la realizzazione di tutti questi progetti.
Io sono la presidente di questa associazione ma poco importa.
Quello che davvero importa è questo.
Ho visto con i miei occhi cos’è un allevamento a terra. Ho guardato piangendo gli occhi lucidi dei tacchini che erano qui rinchiusi. Ho visto come arrivano gli animali dagli allevamenti e ho fatto tutto ciò che è in nostro potere per ridare loro la dignità che in quei luoghi perdono.
Insieme a David abbiamo lottato per far finire tutto questo e far iniziare qualcosa di unico. Abbiamo lottato con asl e istituzioni per cambiare le loro regole e non risultare “allevamento”. Abbiamo lottato per le mucche di Suzzara, per far segnare loro come animali non più sfruttabili e di conseguenza anche tutti coloro che entrano nel nostro rifugio. Abbiamo lottato per salvare Scilla. Abbiamo lottato anche per tanti altri, a volte riuscendoci e a volte no perchè e che cazzo siamo umani.
E vogliamo essere qui, ancora e sempre, per continuare a lottare ancora perché tante altre lotte sono in corso. Per altri che possono farcela ad essere liberati. E vogliamo esserci anche per dare disponibilità ad altri che vogliono lottare e che riescono a liberare. Siamo qui per questo e alcuni di voi lo sanno. Agli altri che non lo sanno voglio dire che se falliamo noi, fallite tutti. La nostra è una piccolissima vittoria ma che vuol dire molto.
Fallire significherebbe darla vinta ad Amadori, darla vinta all’industria della carne.
Perché alla fin fine lo sapete vero che se noi andiamo via da qui riapriranno un altro allevamento?
Magari rispettoso del “benessere animale” con i polletti che razzolano, ma che dopo 6 mesi finiscono comunque al macello.
E non servirà a nulla allora andare davanti a quel macello a dire che non è giusto tutto questo.
Ci esaltiamo tanto perché siamo sempre di più… ma dove siamo?
Cosa stiamo facendo?
Abbiamo l’opportunità di dare una risposta concreta al sistema e ce la lasciamo sfuggire in questo modo?
Non so voi, ma io non di certo.
Noi non di certo.
Faremo come sempre di tutto per rimanere qui a continuare il nostro presidio davvero permanente, reale e concreto.
Volete avere l’opportunità di poter dire che nel vostro paese esiste il rifugio per animali da reddito e per persone più grande, forse, d’Europa?
E allora aiutateci!
Siate al nostro fianco!
Perché sennò sarete costretti a dire, in futuro, che avevate l’opportunità di avere tutto questo e di esservelo lasciato sfuggire perché eravate troppo impegnati a inseguire un sondaggio, un burger vegano oppure perché vi stiamo antipatici.
Ma questa non è una questione personale… è una lotta, è una battaglia.
Ed è questo che serve ora!
E’ la lotta contro la mercificazione.
E’ la lotta contro lo sfruttamento.
E’ la lotta contro il sistema.
Dalla base, dall’allevamento.
Un posto “loro” che diventa nostro e non per grazia ricevuta.
Frutto sempre e solo della lotta.
Continua ed inesorabile.
Ora, vi unite a noi in questa lotta o rimanete a guardare l’ennesimo fallimento dell’antispecismo?.
Aiutateci, per favore, e partecipate alla raccolta fondi.
Fatelo per Coco, Tormenta, Tempesta, Bufera, Pablo, Lucy, le 3 maialine e i loro 5 cuccioli, per le capre di Anna, Anselmo, Capri, Mona, Wilma, Spawn, Kessler e Setter, per Ilario, Mela, Nuby, Tina, Naomi, Bruto, Gianduia, Spumina, Meringa, Faustina, Sole, per Antonio e Zefiro, per i Pinckerton e l’allegra banda dei polli, per Maria, Raia, Mistica, Ginevra, Isotta, Morgana, Diablo, Zena, Bisbe, per Columbine, Alaska, Xena e Olimpia, per Polzi, Io, Verdena, Stella, Scilla e Matilde, per il Tenente e tutte le creature volanti, striscianti, saltellanti che qui vivono e per tutte quelle che devono arrivare e che senza di noi non potranno vivere.”

E’ guerra alla libertà

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Giusto un anno fa, più o meno in questi giorni, venivo contattata dalla mia amica Antonella, che vive a Pantelleria.

Chiedeva aiuto per tre tori che da anni vivevano liberi nella sua isola. Un recente e grave incendio li aveva privati del cibo, e il gran caldo e l’arsura dell’acqua. Così si erano visti costretti ad avvicinarsi alle abitazioni nel tentativo di sopravvivere.

E prontamente il sindaco dell’isola aveva emesso un’ordinanza di abbattimento, al fine di salvaguardare l’incolumità degli umani.

Sempre la stessa storia, che si ripete uguale a se stessa ogni qualvolta si verifichi un incontro scontro tra animali liberi, nel loro mondo libero, e animali umani, convinti di essere gli unici a poter disporre di questo pianeta.

Ma quella volta era andata diversamente. Ci siamo messe a tavolino. Io, Antonella e gli Agripunkers. Abbiamo scritto un primo articolo, promosso una petizione, coinvolto piccoli gruppi e collettivi, come quello di Resistenza Animale.

Senza aiuto alcuno da parte delle grandi associazioni (a parte un tardivo tentativo di Animalisti Italiani di impadronirsi della campagna e fregiarsi della vittoria), in poco tempo abbiamo raccolto più di 30 mila firme, coinvolto la stampa locale e nazionale, creato un tal clamore da spingere il sindaco a convocare Antonella e concordare una soluzione alternativa all’uccisione.

I tori, pian piano, sono stati guidati verso una valle lontana dall’abitato. Alcune persone del luogo si sono impegnate a fornire loro acqua e cibo.

Ed è stato così che due di loro (un terzo è stato ucciso comunque), ad oggi, possono ancora vivere tranquilli. Liberi. Padroni della loro vita. Nella terra che è la loro casa, e non esclusivo appannaggio della specie dominante.

Si è trattato di una vittoria epocale.

Ma soprattutto di una vittoria che avrebbe dovuto fare scuola, un approccio che sarebbe dovuto diventare comune e consolidato ogni qualvolta si fosse presentato un evento simile.

Ma così non è stato.

Dei tori di Pantelleria quasi nessuno ha parlato.

Di trovare una soluzione simile per altri animali liberi e selvaggi non si è quasi mai provato.

Non nel caso delle mucche di Brenna, fuggite durante il trasporto da un alpeggio francese ad una fiera del bestiame, che le avrebbe viste messe in vendita per poi essere rinchiuse in qualche allevamento fino alla morte. Da mesi le due mucche vivevano libere e amate dalla gente del posto, sicure e monitorate. Ma che sono finite in un recinto di un rifugio, con un nome ridicolo. Il post del rifugio in questione, involontariamente, ci racconta di quanto questa fine non sia quella che le due evase avrebbero voluto. Si chiedono infatti che mai sarebbero riusciti ad “acchiappare” le due mucche.

O di recente le mucche libere di Carpineto Romano. Sono centinaia, e da tempo vivono libere, ormai rinselvatichite, allo stato brado. Come ogni mucca, ogni vitello, ogni toro vorrebbe vivere.

Non nel caso dei tanti cinghiali che, spinti dalla penuria di cibo, dalla sovrapopolazione causata dalle immissioni in natura da parte dei cacciatori, dalla depauperazione del territorio sempre più antropizzato, sempre più spesso si spingono nelle città e nei paesi in cerca di cibo.

Per loro, nel peggiore dei casi l’uccisione o la cessione a aziende venatorie, nella peggiore la reclusione a vita in recinti che, per quanto grandi possano essere, non saranno mai paragonabili all’infinita vastità dei loro boschi e dei loro monti.

Da ultimo, oggi, la tragica fine di KJ2. Colpevole, come altri orsi prima di lei, soltanto di vivere nel suo territorio, e difendersi dall’intrusione di estranei, spesso minacciosi e pericolosi.

Questa notizia, legata a tante storie terribili di cinghiali e a quella di mucche condannate a morte perché libere e considerate pericolose per l’incolumità umana, è un pugno allo stomaco.

E’ evidente come stia diventando una emergenza primaria la difesa dell’animale libero nel suo ambiente libero.

E chi lotta per la liberazione animale dovrebbe lottare per la libertà degli animali, non solo per la loro salvezza fisica. Non dovremmo inscatolare chi è libero, con il nobilissimo fine di salvarlo dai cacciatori e dai mille pericoli di un mondo non sempre a sua misura, ma salvaguardarne la libertà.

Dovremmo tornare non solo nelle piazze, ma anche nei boschi.

Dovremmo imparare dalle passate esperienze.

A cominciare dagli anni Cinquanta e Sessanta, degli Hunt Saboteurs Association e della League Against Cruel Sports. Dalle azioni della Band of Mercy.

Dovremmo lottare al loro fianco. Solidali con la loro resistenza, che è anche la nostra. Per la loro libertà che è anche la nostra.

Fonti:
Sui tori di Pantelleria:
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2016/08/09/news/pantelleria_salvi_i_tori_che_vivono_sull_isola_il_sindaco_revoca_l_ordinanza-145675763/
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2016/08/09/news/pantelleria_il_comune_vuole_abbattere_i_tori_allo_stato_brado_il_web_si_mobilita-145660896/
https://www.greenme.it/informarsi/animali/21128-tori-pantelleria-salvati#accept
https://www.change.org/p/salviamo-i-tori-di-pantelleria
Sulle mucche di Brenna:
http://www.laprovinciadicomo.it/stories/cantu-mariano/erano-fuggite-dalla-fiera-di-alzate-atena-e-rosetta-avvistate-a-brenna_1217539_11/
https://www.nelcuore.org/home/2017/02/09/como-mucche-in-fuga-cercano-casa/
https://www.facebook.com/events/167122613785951/permalink/173289756502570/
http://www.radiopopolare.it/2017/02/athena-e-rosetta-in-fuga-per-la-vita/
http://www.ilgiorno.it/como/cronaca/mucche-in-fuga-1.2876962
Sulle mucche di Carpineto Romano:
https://resistenzanimale.noblogs.org/post/2017/08/10/licenza-di-uccidere-per-i-bovini-liberi-di-carpineto-romano/
https://video.repubblica.it/edizione/roma/carpineto-romano-bovini-nel-centro-del-paese/281455/282050
http://www.casilinanews.it/39976/attualita/bovini-liberta-carpineto-romano-video-andato-onda-striscia-la-notizia-ieri.html
Sui cinghiali:
http://www.lastampa.it/2017/04/04/societa/lazampa/animali/la-battaglia-delle-citt-invase-dai-cinghiali-0vo8DH9hiMhlNp7Et9Nk7H/pagina.html
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2017/04/12/ASqj1SxG-cinghiali_esperto_mangiare.shtml
http://www.corriere.it/cronache/17_marzo_25/cinghiali-citta-come-fermarli-21cf9d80-10ca-11e7-8dd1-8f54527580f3.shtml
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2017/05/20/AS2nCxUH-abbattuto_cinghiale_comunioni.shtml
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2017/05/03/ASweqoFH-cinghiali_settembre_galliera.shtml
http://www.lastampa.it/2017/07/05/edizioni/novara/il-cinghiale-martino-salvato-a-genova-ora-la-mascotte-sulle-colline-di-agrate-qPQHvz9LCmOqTW4GiKM70O/pagina.html
http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2017/06/25/news/cinghiale-tra-i-bagnanti-a-calignaia-1.15535670
http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2017/08/12/news/catturati-i-primi-cinghiali-alla-spiaggia-di-calignaia-1.15727795
Su KJ1:
http://www.corriere.it/cronache/17_agosto_01/orso-trentino-enpa-colpo-scena-uomo-ha-aggredito-orso-743d192a-76bf-11e7-891a-91d906aac00b.shtml
http://www.corriere.it/cronache/17_agosto_13/orsa-kj2-stata-abbattuta-pericolosa-gli-uomini-recidiva-trentino-2298dafc-7fff-11e7-a3cb-7ec6cdeeea93.shtml
Sull’imparare dal passato :
Keith Mann, From Dusk ‘til Dawn
Steven Best – Anthony J. Nocella, Terrorists or Freedom Fighters? Reflections on the Liberation of Animals
E per leggere e pensare:
Wu Ming 2, Guerra agli Umani

Numeri

Di recente ho condiviso un paio di notizie riguardanti il numero di animali “utilizzati” nella ricerca. La prima, pubblicata da Speaking of Research, riguardava l’aumento degli animali utilizzati nella ricerca in Spagna. La seconda il numero di animali uccisi nei laboratori anglosassoni. In entrambi i casi, veniva evidenziato un aumento delle vittime negli ultimi anni.

In entrambi i casi, mi è stato fatto notare che, sì, il numero è in crescita, ma è diminuito oggi rispetto a otto – dieci anni fa, segno che – dai e dai – la sensibilità è aumentata, e che le cose stanno, seppur lentamente, cambiando.

Sembra quasi che io, in qualche modo, goda a vedere solo il negativo, e a disconoscere le vittorie ottenute dal movimento animalista (quindi a masochisticamente e acriticamente disconoscere i risultati ottenuti anche da quel che io ho fatto, e delle azioni a cui io ho partecipato). Quando invece stapperei bottiglie di Jack a profusione, se davvero fossimo in presenza di una seppur lenta, ma inesorabile marcia verso la fine di tanto orrore. E così sono andata a cercare i dati riguardanti i numeri oggettivi relativi alla sperimentazione animale a livello globale. A cercare le prove del mio ingiustificato pessimismo.

La sperimentazione animale, sebbene esistita fin dall’antichità, diviene prassi nella ricerca e nella formazione a partire dalla metà del XIX secolo. L’espansione delle industrie chimica e farmaceutica nel secondo dopoguerra ne aumenta a dismisura l’utilizzo ed il numero di vittime. Fino ad arrivare alla creazione di un complesso e ricchissimo sistema economico, che include laboratori, case farmaceutiche, istituti di ricerca, allevatori, trasportatori, fabbricanti di strumenti, gabbie, cibo. La ricerca con animali non si ferma a quella biomedica (il topo che salva la vita al bambino), ma riveste gli ambiti più disparati: la zootecnia, le prove di tossicità di sostanze chimiche, la cosmesi, l’industria bellica. La sperimentazione animale, quindi, negli ultimi decenni soprattutto, ha alle spalle una immensa forza economica. Che è in continua crescita, come dimostrano vari report reperibili in rete (1).

E torniamo ai numeri.

In un recente articolo pubblicato da Cruelty Free International si legge che:
– sono circa 115 milioni gli animali “utilizzati” nella ricerca ogni anno, a livello mondiale
– i paesi in cui la sperimentazione animale miete più vittime sono: Stati Uniti, Giappone, Cina, Australia, Francia, Canada, Gran Bretagna, Germania, Taiwan, Brasile
– il numero di esperimenti non è in diminuzione, ma in crescita in molti paesi (ad esempio in Cina), o sullo stesso livello di quello degli anni Ottanta e Novanta (Gran Bretagna)
E comunque i numeri e i dati, quando esistono, sono sempre sottostimati, in quanto in molti paesi non sono conteggiati certi animali (come ad esempio i piccoli roditori), ed in altri non esistono leggi che impongono ai laboratori di dare comunicazione in merito. (2)

Sono quindi andata a cercare le statistiche riguardanti questi paesi (considerando le statistiche generali europee per quanto riguarda Francia, Gran Bretagna e Germania: chi ha tempo e voglia può andare a sfogliare i dati della Commissione Europea per verificare i dati dei singoli paesi).

Stati Uniti

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Speaking of Research parrebbe dare buone notizie. Nel 2015 sarebbero stati utilizzati 767.622 animali, ben la metà rispetto al 1985. Ma il dato riguarda soltanto gli animali inclusi nel Animal Welfare Act, quindi restano fuori ratti, topi, pesci ed uccelli (per i quali gli autori stimano un numero che oscilla tra gli 11 milioni ed i 25 milioni). E sono gli stessi autori dell’articolo a sottolineare come la diminuzione nell’uso di determinati animali (ad esempio i cani) sembra sia andato di pari passo con il passaggio all’utilizzo di topi geneticamente modificati. Quindi la buona notizia parrebbe essere già meno buona. Se non è dato sapere quanti “altri” animali (quelli non conteggiati, ma che avrebbero sostituito gli animali, come i cani, il cui numero è diminuito) non possiamo con certezza affermare che negli Stati Uniti la strage sia effettivamente in diminuzione.

Presumibilmente, anche a detta dei pro-test di Speaking of Research, il numero non è diminuto. Si è piuttosto passati dall’utilizzo di animali “eticamente problematici” ad animali che non suscitano altrettanta empatia.

Giappone

In Giappone (ovvero il secondo paese dopo gli Stati Uniti per portata del fenomeno) la sperimentazione non è regolata a livello nazionale. Gli organi di ricerca sono dotati di linee guida redatte “volontariamente”, ed anche i dati riguardanti il numero di animali utilizzati è redatto su base “volontaria” ogni tre anni, senza cioè un reale obbligo da parte degli sperimentatori di comunicarne la portata.

L’unico dato reperito risale al 2008, e parla di circa 11 milioni di animali utilizzati.

E, secondo uno studio del 2010, l’uso della sperimentazione animale sarebbe in continua crescita (3).

Ma non avendo trovato altri dati più recenti, non ho gli strumenti né per brindare per una diminuzione delle vittime, né per affermare il contrario.

Cina

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In Cina il settore della sperimentazione animale è in continua crescita negli ultimi 35 anni, di pari passo con la crescita economica e con l’apertura ai mercati occidentali. Nel 2006 gli animali utilizzati, secondo fonti ufficiali, furono circa 16 milioni. (3). Che sarebbero saliti a 20 milioni nel 2015. (4)

Quindi, negli ultimi dieci anni, il numero sarebbe crescito di ben 4 milioni.

Australia

In Australia sono stati, nel 2014, circa 7 milioni gli animali utilizzati. Molto meno che nel 2009, vero, ma in salita rispetto a dieci anni prima di circa 500 mila.

Europa

Nel 1996 gli animali utilizzati erano stati poco più di 11 milioni, 9.814.181 nel 1999, per risalire a 10.731.020 nel 2002, 12 milioni nel 2005, così come nel 2008 e poco meno di 11,5 milioni nel 2011 (ultimo dato reso pubblico), con una diminuzione, quindi, di circa 500.000 individui.

Canada

Secondo i dati del CCAC, nel 2014 gli animali utilizzati sono stati 3.500.000, 500.000 in più dell’anno precedente, e 200.000 in più del 2009, contro 1.952.000 del 1996. Quindi, purtroppo, in notevole crescita.

Taiwan

Nel 2005 da statistiche ufficiali sono stati 1.200.000.

Anche in questo caso, come in quello del Giappone, altri dati non sembrano essere reperibili.

Arrivati fin qui, se dovessi fare un triste e banale conteggio, mi troverei costretta ad affermare che – da quel che risulta, e considerando solo i paesi presi in considerazione, ci troviamo di fronte ad un aumento di circa 4 milioni di vittime. Dato che non tiene conto di gran parte dei “paesi emergenti” dove spesso il lavoro di ricerca viene dato in outsourcing, vuoi per i minori costi, vuoi per le regolamentazioni meno restrittive. (5)

Stiamo quindi parlando di almeno 4 milioni.

Che non sono numeri. Non sono freddi dati. Sono piccole Jill, candide Mab. Sono occhi e cuori e paura e solitudine e dolore. Sono quello che trapela dallo sguardo di questo beagle.

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Beagle che ci porta alla fine di questa lista.

Brasile

Fino al 2008 non esisteva nessuna legislazione che regolamentasse la sperimentazione animale. Esiste ora un Comitato Nazionale di Controllo, e nel 2014 il governo ha bandito la maggioranza dei test cosmetici. Manca però la pubblicazione dei dati sugli esperimenti e sul numero di animali ad essi sottoposti. Dalla letteratura reperibile in rete l’unico dato è quello riferito allo stato del Paranà nel 2006, quando vennero utilizzati 3.497.563 animali.(6)

Altro non ho trovato. E, arrivata a questo punto, mi fermo.

Arrivata a questo punto, ho davvero paura di dover ammettere che, per quanto si sia cercato di fare, pur con le meravigliose vittorie e le migliaia di animali sottratti allo sterminio (come quei 300 beagle e migliaia di roditori portati via dal laboratorio di Sao Roque, in Brasile, nell’ottobre del 2013, uno dei quali è quello della foto qui sopra), pur con i boicottaggi e le manifestazioni, la sperimentazione animale sembra non aver ceduto di un passo. Forse perché il Gigante da sconfiggere è ben più forte e potente. E non è “la vivisezione”. E’ il sistema che alla vivisezione da linfa e dalla vivisezione ottiene linfa e nutrimento. E quel gigante ha un nome.

Che sa di vetero polveroso antropocentrico marxismo. E posso capire che non piaccia a chi spera di riuscire davvero a vincere e convincere. Si chiama Capitalismo.

(1) http://www.businesswire.com/news/home/20140110005535/en/Research-Markets-Global-Mice-Model-Market-Analysis
Annamaria Bottini e Thomas Hartung, Food for Thought.. on the Economics, in http://altweb.jhsph.edu/altex/, 2009
http://www.navs.org/the-issues/the-animal-testing-and-experimentation-industry/

(2) http://lushprize.org/many-animals-used-experiments-around-world/
http://www.animalethics.org.uk/i-ch7-8-biomedical-animals.html

(3) Qi Kong e Chuan Qin, Laboratory Animal Science in China: Current Status and Potential for the Adoption of Three R Alternatives, ATLA, 38, 2010, pag. 53-69

(4) http://www.sciencemag.org/news/2016/03/china-finally-setting-guidelines-treating-lab-animals
http://www.frame.org.uk/legislation/legislation-asia/

(5) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3215567/
http://www.nytimes.com/2006/11/27/business/worldbusiness/27iht-dogs.3681134.html

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2515875/Outcry-UK-scientist-flies-Africa-experiments-monkeys-banned-here.html

(6) http://www.animalexperiments.info/resources/Studies/Animal-numbers/Brazil/Brazil-Silla-2010-ATLA-38-29-37.pdf
http://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0102-86502009000100015
http://www.fiocruz.br/omsambiental/media/ArtigoILARv5201eFilipecki.pdf
https://en.wikipedia.org/wiki/Animal_welfare_and_rights_in_Brazil

SCILLA

Ci sono storie che finiscono bene. Talmente bene da riempirti il cuore di speranza e gli occhi di lacrime di gioia.

In attesa di riuscire a tornare nell’isola di Agripunk, e di conoscerlo di persona, voglio condividere la sua meravigliosa storia (l’originale lo potete leggere qui).

Scilla, che si è ribellato al suo destino di schiavo. Che con coraggio e determinazione è fuggito. Che ora è finalmente libero.

Nella mitologia il mostro Scilla sarebbe nascosto in una grotta della Calabria, però prima di essere mostro, Scilla fu una ninfa che amava molto le spiagge di Messina.
“Scilla, “Colei che dilania”, che strappava i marinai dalle loro navi ogni volta che passavano vicino la sua tana nello Stretto di Messina, non era sempre stata un mostro.
Aveva un passato felice, ma come in molte tragedie dell’antichità, l’amore è capace di generare mostri, per scelta propria o per intervento di esseri gelosi.
Prima del cambiamento Scilla era una ninfa e figlia, secondo una delle tradizioni mitologiche, della dea Crateiso, o per un’altra versione, generata da Forci (o Forco, divinità marina della mitologia greca, figlio di Ponto e Gaia) e da Ecate (dea degli incantesimi e degli spettri, rappresentata dal numero tre).
La graziosa ninfa amava le spiagge di Zancle, l’antica Messina e in quei luoghi amava passeggiare spesso. Purtroppo, proprio questi suoi frequenti passaggi in riva al mare, nella zona dello Stretto, causarono la sua rovina.” (fonte Grifeo)
Anche per il nostro Scilla passare per lo stretto poteva essere la sua rovina o solamente la fase intermedia di un lungo viaggio iniziato chissà dove che sarebbe dovuto terminare in Libano nell’unico modo in cui finisce purtroppo, la vita di un giovane vitello.
Invece lui ha avuto coraggio o impulsività o chissà quale altro strano sentimento che l’ha portato a sfuggire, prendere la rincorsa e tuffarsi nel mare dello stretto di Messina.
Volevamo che per lui questa avventura si trasformasse in rivincita, in salvezza ed è quello che è successo.

Era l’8 aprile quando, tra i soliti post di Facebook, tra un meme divertente e un post sullo squartamento di turno, apparve questa notizia:
IN MARE
Mucca salvata nello Stretto di Messina
Si tratta di un maschio di origine francese che, in caso di irrintracciabilità del proprietario, verrà dato in adozione.

Una scena da film, talmente surreale da far strabuzzare gli occhi a tutti i pendolari dello Stretto che, stamattina, se la sono ritrovata dinnanzi: una mucca, in carne ed ossa, nel bel mezzo del mare, che tentava di raggiungere la Rada San Francesco e quindi la salvezza.
Ci sono voluti parecchi istanti per realizzare davvero quello che stava accadendo, poiché nessuno si spiegava cosa ci facesse l’animale in acqua, nella rotta che di solito è “riservata” soltanto alle navi traghetto. E sono stati proprio loro, quelli che si trovavano a bordo, a notare la strana macchia scura tra le onde ed avvertire la Capitaneria di Porto. Poi la segnalazione è volata alla Sala Operativa dei Vigili del Fuoco e così la squadra dei pompieri si è subito messa all’opera. Dopo varie peripezie, e quasi tre ore di “manovre”, la mucca è stata recuperata e portata sulla terra ferma. Dopo aver sostato per qualche ora nel piazzale della Caronte, dove è anche stata visitata dal veterinario, adesso la “miracolata” si trova in un allevamento di Mili San Pietro. A portarla là sono stati gli agenti della sezione Annona della Polizia Municipale, ai comandi di Biagio Santagati, cui adesso spetterà anche il compito di rintracciare il vero proprietario del vitello. Lo stesso, infatti, risulta microcippato e identificabile. Si tratta di un maschio di origine francese che, in caso di irrintracciabilità del proprietario, verrà dato in adozione. (Veronica Crocitti)

Appena letto l’articolo, cerchiamo subito i contatti e telefoniamo a chi di dovere per proporci come adottanti dandogli da subito un nome, per renderlo individuo, per renderlo fuggitivo, per renderlo rifugiato… un nome con un significato ben preciso.
Facciamo partire dei mail bombing, aiutati da Resistenza animale, per convincere tutte le persone coinvolte nel suo salvataggio a riconoscere il suo gesto.
Il primo mail bombing ha smosso le acque e gli ha assicurato la salvezza, poi ne sono dovuti seguire altri quando la situazione sembrava essere in stallo e tutti questi appelli sono stati accolti con entusiasmo.
In tantissimi avete scritto… dopo la prima settimana ci dicevano che erano arrivate 1000 mail almeno!
Nel frattempo restavamo in contatto stretto con il Comune e l’Asp anche grazie ad Alessandra, volontaria Enpa, che nonostante sia sempre straimpegnatissima e superattiva tra la sua famiglia e gli animali che salva e fa adottare, è stata i nostri occhi e le nostre orecchie a Messina per tutto questo tempo.
Sono passati gli esami e le vaccinazioni, sono passate le ferie e finalmente, dopo 5 mesi, è arrivato l’affido!
Poi gli ultimi ostacoli burocratici risolti grazie all’Enpa nazionale ai quali siamo davvero molto grati per l’aiuto datoci.
E finalmente, eccolo qui!
Tutto questo grazie anche a voi…. tutte e tutti voi che avete accolto non il nostro appello, bensì il suo appello!
Appello alla resistenza che Scilla ha voluto lanciare nella maniera più plateale: gettandosi in mare, tentando la fuga nuotando, ribellandosi rifiutandosi di salire di nuovo in un’altra nave ancora per raggiungere la sua destinazione… il Libano.
Scilla è riuscito grazie a tutt* noi ad uscire da questo sistema.
E’ stato affidato a noi come animale NON da macello, una definizione che lo rende libero dall’industria della carne e del latte.
Una definizione necessaria per poter entrare nel nostro rifugio che ora sarà la sua casa, in quanto qui nessuno è da macello o meglio, tutt* sono fuori dalla catena alimentare.
Il nome Scilla è stato scelto da noi per alcuni motivi: essendo in alcuni articoli chiamato “mucca” ed in altri “vitello” e non avendo per noi nessuna rilevante importanza il sesso o genere di appartenenza di alcun individuo, abbiamo deciso di ribattezzarlo così perchè il nome Scilla, con qualche variazione e anagramma, ricorda il nome Sicilia.
Inoltre, come spiegato nel prologo, per il legame di questo nome con Messina e per ricordare quello che questa città ha fatto per lui.

Vuole essere anche un richiamo alla Calabria, visto che pochi giorni dopo la vicenda di Scilla, una vitellina proprio in provincia di Reggio Calabria ha tentato anch’essa la fuga.
Fuga che non è finita bene come per lui visto che è stata uccisa a colpi di fucile.
Quindi si, il richiamo anche alla Calabria è voluto in onore suo, vitellina per la quale nessuno ha potuto intervenire perchè troppo frettolosamente è stata decisa la soluzione più rapida e letale.
In cuor nostro rimarrai sempre un triste ricordo piccola Calabria, per noi sarai sempre la nostra Cariddi.

Comunque almeno Scilla è riuscito a sfuggire ed è un grande regalo oltre che per lui ovviamente, anche per noi e per le nostre amiche mucchine.
Qui troverà una madre che lo aspetta, una madre alla quale avevamo fatto una promessa.
Una madre che quasi un anno fa perdeva il suo ultimo figlio perchè credeva di aver perso la speranza.
Le avevamo promesso di salvare un altro figlio in nome del suo, in nome di Siria per ravvivare quella speranza che troppo spesso si affievolisce sommersa dalle brutte notizie.
E così è stato fatto, ad ogni costo, perchè una promessa fatta ad una mucca è una promessa solenne che va onorata.

Si chiude così un cerchio.
Le 3 mucchine di Suzzara e i discendenti della loro storia: Siria, Stella e ora Scilla.
3 vitelli diversi, dalla storia diversa, dalla sorte diversa ma con tante cose in comune da raccontare.
Che per noi è una nuova promessa da mantenere.

Ringraziamo Resistenza Animale che ci ha aiutati diffondendo gli appelli, ringraziamo tutte le persone e le associazioni che ci hanno aiutato diffondendo e scrivendo solidarietà, ringraziamo l’Enpa per l’intervento prezioso di Alessandra che non smetteremo mai di adorare per l’impegno che ha messo in questi quasi 7 mesi, ringraziamo l’assessore Ialacqua, il Sindaco Accorinti e i dottori Ruggeri e Calabrò dell’Asp di Messina che, nonostante i mille inghippi burocratici, hanno permesso la sua salvezza, ringraziamo tutt* voi che in questi mesi avete chiesto sue notizie e avete diretto anche solo per un attimo i vostri pensieri a questo bel vitellozzo.

Grazie a chi dall’inizio ci ha aiutati economicamente per sostenere le spese del viaggio e della recinzione di ambientazione con benefit e donazioni e grazie a chi vorrà aiutarci ora per la castrazione (obbligatoria) e per le altre spese relative al suo mantenimento, alle visite e alla sua riabilitazione oltre che per le altre spese del rifugio.
Chi volesse darci un altro aiutino quindi, lo può fare con una donazione qui:

conto Banca Etica n° 216509 Intestatario AGRIPUNK ONLUS 
IBAN IT47 C050 1802 8000 0000 0216 509
causale “donazione per Scilla” o “donazione per recinzioni”

LA FIERA DEL DOMINIO

Questo breve articolo è stato pubblicato sulla pagina facebook de Le Grandi Orecchie Onlus.

E’ il racconto, ed una riflessione, su una delle tante fiere “del bestiame” che si tengono in ogni angolo del paese. E sulla impermabilità della politica “istituzionale” e partitica nei confronti di tematiche, come quella dello specismo e dello sfruttamento dei non umani, la cui portata rivoluzionaria inevitabilmente minerebbe lo status quo dalle fondamenta.

“Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati.
Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo.
Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione.

Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali.

Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato.”

Max Horkheimer, «Il grattacielo», da Crepuscolo.
Appunti presi in Germania 1926-1931, Einaudi 1977, pp. 68-70

Quella andata in scena ad Inzago durante la festa patronale è l’ennesima riprova che non ci sono colori politici, differenze ideologiche che tengono quando si tratta di sfruttare gli animali, di dar continuità allo specismo, di mantenere salde le fondamenta del grattacielo che è specchio e rappresentazione della nostra società.

Maggioranza ed opposizione, da sempre pronti a darsi battaglia, si ritrovano, si uniscono nell’espressione di “superiorità” umana sulle altre specie, e così nonostante il colore diverso, l’ideologia opposta, in quel paese, esempio e rappresentazione di quel che accade in ogni angolo del pianeta, dove il potere politico e istituzionale altro sembra non essere se non emanazione del potere economico, qui di un singolo macellaio, altrove di ben più potenti realtà, si chiamino esse Monsanto o Cremonini o Marshall, si è svolta l’ennesima fiera in cui esseri senzienti, son stati esposti, mercificati come oggetti privi di vita e sentimenti, paure ed emozioni.

Visto con gli occhi di coloro che reggono sulle loro spalle il grattacielo, non esiste differenza alcuna tra chi ha governato nei due mandati passati, il “compagno”, quello vicino a tutti, fiero rappresentante di un’ideologia politica che dovrebbe essere la più sensibile alle ingiustizie, più vicina agli sfruttati, ed il sindaco attuale, di ben altra sponda, orgoglioso figlio di allevatori. Entrambi, e non ci sorprende, quando si tratta di allargare lo sguardo, cambiare prospettiva, hanno deciso di non guardare, e continuare a difendere la tradizione di questa fiera, figlia di una cultura del dominio che sembra inattaccabile.

Chi, prima che la fiera si ripetesse quest’anno, ha chiesto un confronto, ne rendiamo atto, è stato ricevuto ed ascoltato. Le richieste per un minimo di tutela degli animali sono state, almeno a parole, accolte. Ma chi avrebbe dovuto far sì che quelle parole si tramutassero in fatti, chi avrebbe dovuto mettere in pratica le richieste del sindaco e dell’amministrazione, ha permesso che, anche quest’anno, le condizioni degli animali esposti fossero a dir poco aberranti.

E’ stato chiesto che fosse a disposizione una vasca di acqua, affinché gli animali esposti per ore ed ore potessero almeno abbeverarsi. La vasca era presente. Ma è rimasta sempre vuota.

Era stato chiesto che gli animali venissero almeno protetti dalla morbosa attenzione del pubblico da transenne. Le transenne c’erano. Ma talmente basse che chiunque poteva toccarli, infastidirli.

E’ stato chiesto che gli animali non venissero immobilizzati. Era stato promesso che questa volta si sarebbero utilizzate corde di lunghezza adeguata. Ma quelle corde erano non più lunghe di qualche decina di centimetri, e gli animali erano immobilizzati per il collo, impossibilitati a qualsiasi movimento. I buoi e le mucche, poi, per poter essere più facilmente “spostati” avevano anelli al naso, da cui partivano altre corde legate alle loro corna. Tirando queste corde, e quindi strattonando gli anelli fissati ad una parte così sensibile del corpo, venivano trascinati senza pietà in mezzo al pubblico rumoroso, esposti come cose, come pezzi di carne senza dignità.

Come pezzo di carne senza dignità è stato trattato il bue di cui, festanti, i partecipanti hanno tentato di indovinare il peso nella gara che da anni è il momento clou della festa. Pezzi di carne senza dignità, subito dopo esposti nella vetrina del negozio del macellaio, che di questo gioco va così fiero.

Ed è stato così che, in un piccolo paese della provincia di Milano, in un finesettimana di ottobre, è andata in scena la rappresentazione grottesca di quel che accade ogni giorno, in ogni angolo del pianeta. In maniera più o meno evidente e palese. Una rappresentazione che non avrà fine fin quando non riusciremo a scardinare il sistema dalla base, ad abbattere il grattacielo dalle fondamenta, a sostituire il dominio e la supremazia con il loro opposto. A creare un mondo senza differenze. Senza padroni. Senza schiavi.

 

STORIA DI GATTO E DI UN SOGNO

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Era una fredda mattina di ottobre.

La pioggia sottile aveva lasciato spazio ad un sole pallido, che si rifletteva nelle pozzanghere grigio asfalto.

Era tutto grigio, in quel brutto posto dove ogni mattina mi recavo a lavorare: le strade, le poche case, i capannoni, gli uffici, le persone. Grigio tristezza anche il mio umore.

Avevo da poco iniziato ad arrancare per cercare di sopravvivere al crollo della mia vita, alla distruzione del mio piccolo mondo. Avevo creduto, ed ero stata abbandonata, nel modo più vigliacco e meschino possibile.

Mi vedevo come un gattino sbattuto fuori di casa, solo e bagnato, confuso e disperato. E così parlavo di me alla mia psicoterapeuta.

Quella grigia mattina lui era lì.

Varcato il cancello della ditta, questo mucchietto d’ossa e pelo ritto e pulci era lì che mi guardava. Come guardarsi allo specchio, era lì l’immagine che avevo di me. In quel cortile sporco, tra vecchi bancali e auto parcheggiate.

Come mi vide, mi corse incontro e si arrampicò sui miei jeans fradici. La prima immagine che ho di lui. La prima fotografia che gli scattai.

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Venne in ufficio con me, e dormì tutto il giorno sulla mia spalla. E a sera prese con me il treno per casa nostra, per la nostra vita insieme.

Per un anno dividemmo il mio bilocale sui tetti di Milano. Dormivamo abbracciati, mangiavamo insieme sullo stesso tavolo.

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Lasciarlo per andare a lavorare era uno strazio. Quando tornavo mi accoglieva festoso. Non ero più sola, e non avevo più tempo per essere triste. Avevo questo piccolo amico bianco e arancio a riempirmi giornate e testa e cuore.

Di lui si innamorò anche il mio fidanzato Stefano detto Wolverine, che mai aveva vissuto con un gatto. Se ne innamorò anche se la prima volta che lo prese in braccio Gatto, ancora debole e provato da un’infanzia da randagio di zona industriale bergamasca, gli riversò addosso un piccolo fiume di cacca semiliquida.

Passarono un inverno, ed un’estate. Insieme dipingemmo di giallo sole le pareti, e costruimmo un cestino fiorito per la mia Bottecchia rosa. Ascoltavamo i Jefferson e i Beatles e, a volte, il venerdì prendevamo il treno per venire a trovare Wolverine, a gettare le basi del nostro mondo, della Libera Repubblica.

Narra la leggenda che Gatto venisse da Rotterdam. Là viveva in una grande famiglia di gatti bianco-arancio. Una mattina, all’alba, è saltato non visto sull’autotreno guidato da Eric il Rosso (così chiamavamo l’autista olandese che ogni settimana veniva a consegnare nel nostro magazzino). Narra la leggenda che fosse alla ricerca di me e della mia Bottecchia rosa, e di Stefano detto Wolverine. Che portasse con sé semi di saggezza e felicità da dividere con noi. Che cercasse un posto dove stabilirsi e portare pace ed uguaglianza. Dove fondare la Libera Repubblica. Narra la leggenda che prima di partire facesse un sogno ricorrente. Avanti a lui c’era uno specchio, che gli rimandava l’immagine di un gattino magro e spelacchiato, dai grandi occhi verdi. Ma se si avvicinava allo specchio, se guardava meglio, quel gatto cambiava sembianze. Per diventare me. Io e lui, immagini riflesse. Due parti di uno stesso essere. Legame indissolubile.

Otto anni fa ci stabilimmo definitivamente qui. A casa di Stefano detto Wolverine. E in questi otto anni Gatto è vissuto felice, libero, amato.

In questi otto anni Gatto ci ha insegnato tutto quel che sappiamo e in cui crediamo.

Accoglienza. Che negli anni ha portato in casa, affinché avesse cibo e rifugio, ogni gatto randagio di passaggio. Gattone bianco e nero dagli artigli come sciabole, il giovane Junior, NeroGatto, e tanti altri.

Amicizia. Quella vera. Quella che lo ha legato negli anni indistintamente a umani e felini. A noi, così come a Gattaccio e Mamma Gatta, del cui amore reciproco siamo stati testimoni, e che aiutò con tutto se stesso quando i loro due bambini scomparvero, in un giorno d’estate, e non vennero più trovati, non ostante loro tre, e noi, li si avesse cercati per ogni dove per giorni e giorni.

Amore. Senza confini. Quello che proviamo noi per lui. Quello che leggevamo nei suoi sguardi. Quello che lo legava a Rambo, la gatta a cui salvò la vita, e che lo seguiva per ogni dove, inseparabile compagna per cinque lunghi anni.

Da lui abbiamo imparato che non esiste gerarchia alcuna. Che nessuno è superiore a nessun altro. Che ognuno ha, nelle differenze e alterità, stessa dignità, diverse intelligenze e diversi linguaggi, ma stesso diritto alla libertà e al rispetto.

Guardando il mondo attraverso i suoi occhi verdi, ho percorso la mia strada seguendo il sogno di un mondo diverso. Sono salita sul tetto di un allevamento di cani da laboratorio, sono entrata in capannoni soffocanti che rinchiudevano maiali, o galline, o conigli. Ho varcato le porte di uno stabulario universitario. Ho ascoltato, e letto, e studiato, cercando risposte e strade che portassero da qualche parte, verso quel sogno di rivoluzione.

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Un giorno di inizio settembre, quel giorno che ho cancellato per sempre dal nostro calendario, lo hanno ammazzato e buttato via.

Occhi verdi, come erba giovane di primavera dopo un acquazzone. Mio amico e fratello. Mia base sicura, aria che respiravo, mia vita.

Lo hanno buttato via, insieme alle bottiglie vuote, alle cartecce abbandonate, agli scarti di cibo. Come cosa. Rifiuto senza dignità. Proprio colui che mi ha insegnato quanta dignità un gatto possa avere e dimostrare.

Dicono di averlo fatto per non farcelo vedere, per non farci soffrire. Senza chiedersi quanta sofferenza indicibile ci possa aver dato questo gesto crudele. Ma era un animale, mica una Persona. Le Persone non si buttano nell’immondizia. I loro corpi valgono, anche dopo la morte. Al contrario di quanto accade per gli animali, per i clandestini, per i poveracci…

Con la sua terribile fine ha fine anche il nostro sogno. Torniamo con i piedi per terra. Guardiamoci intorno. Non un passo avanti abbiamo fatto. Non era questa la giusta strada.

Non ci resta che respirare forte. Innalzare mura sempre più alte. Restare entro i rassicuranti confini della Libera Repubblica. Difendere e proteggere chi rimane.

Andare avanti. Portandoti sempre con noi.

 

LA GIUSTA STRADA

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Ieri, mentre stavo andando con Rosencratz e Guilderstern, le due topoline, dal veterinario, sono rimasta imbottigliata nel traffico, a Milano, in tangenziale, a due passi dallo svincolo per viale Certosa. Il cielo grigio, la pioggia battente, centinaia di auto. Ed un camion, trasporto animali vivi. Il camion mi ha affiancato, ed è restato lì, fermo. All’interno erano stipati non so quanti vitellini. Piccolissimi. Avranno avuto meno di un mese. Magri. I grandi occhi di velluto.

Tra centinaia di automobilisti nervosi, che avanzavano a scatti, loro se ne stavano lì dentro, a guardare quel mare di lamiera e pioggia e grigio attraverso le sbarre. Invisibili.

Così simili alle tre vitelline che ci sono state strappate lo scorso settembre a Suzzara. E che sono scomparse nel nulla. Seguendo il tragico destino delle loro madri e delle madri delle loro madri. O ai piccoli nati su quel camion diretto in Libano, fermati con le loro mamme, sequestrati, ad un passo dalla salvezza, e poi consegnati da un giudice ad un mercante di animali, e da questo rivenduti a chissà chi. Anch’essi spariti, risucchiati nel pozzo senza fondo di chissà quale allevamento o mattatoio.

E mentre Rosencratz e Guilderstern, così come BeagleJill, vivono lontane dallo stabulario in cui era destino che passassero la loro breve vita, milioni di loro simili continuano ad essere massacrati. Nuovi stabulari, allevamenti e laboratori costruiti.

E ci si sente impotenti.
E mentre miliardi e miliardi di occhi, tanti quante sono le stelle, ci guardano dal buio di allevamenti e macelli e zoo e circhi e laboratori, e camion come quello che mi era lì di fianco, sotto la pioggia, mentre ci si affanna e si lotta, nulla mi sembra che stia in realtà cambiando.
Alle urla di quel beagle, registrate ormai così tanti anni fa, fanno eco altrettante grida, incessantemente.

Cambiare tutto questo è più che necessario. E’ un imperativo. Categorico.

Ma a me sembra, che non sia quella percorsa fin qui la strada giusta.

Pensare che tutto cambierà perché continuiamo a cercare di convincere ogni singolo individuo a comprare latte di soia anziché latte vaccino non funziona.
Il consumo (e quindi la produzione) di prodotti di origine animale è in continua crescita.
I prodotti “alternativi” spesso non significano altro che introiti aggiuntivi per quelle aziende che da decenni ingrassano sulla pelle di mucche, polli, maiali.

Andare in televisione a mostrare le immagini terribili di quel che accade negli allevamenti e nei macelli non funziona.
Tutti si scandalizzano, ma ci sarà sempre qualcuno che dirà che bisogna fare sopralluoghi e accertamenti e far rispettare le regole per il benessere animale (e la salute umana). E il giorno dopo anche il più scandalizzato si sarà dimenticato di tutto. Come ci si dimentica dei morti in mare, dei profughi, delle guerre.

Io non ho la soluzione. Magari ce l’avessi.
Io non dico che quel che viene fatto sia inutile e superficiale (oddio, qualcosa sì che lo è).
Io dico che bisognerebbe fermarsi un attimo.
E pensare.
E trovarla, la giusta strada.

Fino ad allora, credo che me starò qui, buona, a guardare.
Perché a volte, non agire è preferibile all’agire a cazzo.

無爲

 

 

 

STRETTI DA MORIRE

Non avevano nessuna colpa per essere lì.
Al Binario 21.

 

Latina, 24 marzo 1944 – Un carico di 900 deportati provenienti dalla Romania è stato fermato nella zona industriale di Pontinia (Latina) dal Nucleo Investigativo per i Reati in Danno agli Deportati. A causa di numerose violazioni riscontrate, il veicolo che li trasportava è stato sottoposto a fermo amministrativo e sono state elevate sanzioni per seimila lire. Nell’ambito dei controlli inerenti al benessere dei deportati, soprattutto nei giorni precedenti la Soluzione Finale, si è proceduto al monitoraggio del transito degli automezzi per la maggior parte provenienti dall’est Europa, soprattutto Romania, Polonia e Ungheria, e successivamente al fermo degli stessi prima che scaricassero i deportati. Sono stati controllati circa 900 individui con l’ausilio di medici della Azienda Sanitaria Locale di Latina, per verificare le condizioni di salute durante il trasporto, ed è stata accertata anche la morte di alcuni individui, avvenuta prima dell’arrivo a destinazione.

Le sanzioni amministrative sono state elevate per una serie di violazioni: spazi non sufficienti ad assicurare ventilazione adeguata e la mancata possibilità di movimenti naturali all’interno del semirimorchio. Si è accertata inoltre l’eccessiva densità di carico, causa di sofferenza inutile, con compromessa possibilità di riposo degli stessi,  l’impossibilità di una corretta termoregolazione, oltre ad ostacoli al dispositivo di abbeveraggio.. 

Articolo originale qui.

Fai la conessione.

 

STORIA DI CAPITALISTI, ANTICOMUNISTI E POLLI

Tempo fa, mentre traducevo un trattato sui tacchini per gli amici di Agripunk, mi sono imbattuta in un interessante articolo pubblicato nel 2013 da Dale Wielhof sul sito di The Institute for Agricolture and Trade Policy.

Quella che Wielhof racconta è la storia di come un immigrato italiano, divenuto agricoltore negli Stati Uniti, e suo figlio abbiano contribuito a trasformare l’allevamento di polli in una gigantesca operazione industriale.

Racconta anche come lo sviluppo di un’economia capitalista basata su grossi gruppi multinazionali sia stata una scelta ben precisa. Una scelta di cui continuiamo a pagare il prezzo, sempre più salato.

Wielhof è un allevatore. Il suo punto di vista (ed il suo racconto) non tiene conto delle problematiche etiche connesse all’allevare animali (siano essi in allevamenti intensivi o in bucoliche fattorie).
Ma ci racconta comunque uno scenario da incubo. Un incubo sempre crescente visto che – dati alla mano – il consumo di carne è in continua crescita, e con esso il modello economico basato sul potere di pochi gruppi e sulla globalizzazione di produzione, distribuzione e consumi. Un incubo che resterà tale finché, come conclude, non si arriverà ad una vera e propria rivoluzione nei sistemi di produzione. Sostituendo al profitto, scrive lui, la qualità.
Aggiungo io: sostituendo al profitto la sostenibilità, ed una nuova etica.

Buona lettura.

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Pollo arrosto, chicken nuggets, pollo Kung Pao, Buffalo wings, insalata di pollo, pollo allo spiedo…
Tutti amano (e mangiano) pollo.
Secondo i dati del National Chicken Council il consumo statunitense di carne di pollo (così come quella di tutti gli altri animali) è in continua crescita.
Nel 1965 se ne consumavano poco meno di 20 kg all’anno a testa. Nel 2014 si è arrivati a 46 kg. Ed il consumo stimato per il 2016 è di 49 kg. Più del doppio.
E secondo dati FAO il consumo di carne di pollo a livello mondiale è salito da 3,2 kg pro capite in media del biennio 1964 / 1966 ai 13,8 del 2015, con una previsione di crescita per il 2030 fino a 17,2 kg. La crescita maggiore si registra nei cosiddetti paesi emergenti, dove si passa da 1,4 kg del 1964 a ben 10,5 kg del 2015. Di pari passo con l’adeguamento al modello di quello che una volta si autodefiniva “mondo libero”.

Prima della Seconda Guerra Mondiale la carne di pollo era riservata per le grandi occasioni, i pranzi della domenica. L’industria del broiler, nata tra gli anni Venti e Trenta, non era ancora sviluppata. I polli che finivano ammazzati e in pentola erano un sottoprodotto della produzione di uova. Ovvero galline non più produttive o polli maschi in eccedenza.

E’ negli anni Cinquanta e Sessanta che l’allevamento di polli si trasforma in produzione industriale di polli broiler, con mega impianti che racchiudono centinaia di migliaia di animali tutti uguali, mentre prima di allora, gli allevamenti constavano di una certa varietà di razze.

Il punto di non ritorno coincide con un concorso lanciato da una catena di supermercati.

Nel 1945 la Great Atlantic & Pacific Tea Company (meglio conosciuta come A&P), catena di supermercati che per più di 150 anni ha avuto un ruolo leader mercato nord americano e canadese, e che ai tempi era il più grande rivenditore di polli negli USA, lancia, in collaborazione con l’USDA, un concorso nazionale rivolto agli allevatori. Vincitore chi avrebbe “prodotto” il pollo con la crescita più veloce, il peso maggiore, la migliore qualità di carne.

Ai tempi la A&P era un gigante, capace di creare ed imporre il modello di vendita di cibo a basso prezzo e a volumi sempre crescenti. Nata nel 1860, nel 1920 già vantava 16.000 punti vendita ed un giro d’affari annuo di 1 miliardo di dollari. Grazie all’adozione di una politica di integrazione verticale e la richiesta di scontistiche a fronte dei grandi volumi di merci acquistate, sia verso i produttori che i rivenditori, A&P portò negli anni ad un cambiamento economico radicale, con la messa fuori gioco dei piccoli produttori e delle aziende familiari. Nel 1945 il Dipartimento di Giustizia americano condanna la A&P per limitazione illegale della concorrenza. Il danno di immagine subito non era da poco. Il concorso indetto per il Pollo di Domani aveva proprio il fine di limitare i danni.

Al concorso prendono parte agricoltori ed allevatori di tutto il paese, che spediscono o portano le uova dei loro animali in centri appositamente costruiti, dove le uova vengono incubate, i pulcini allevati ed alimentati in condizioni controllate, uguali per tutti. Gli animali vengono scrupolosamente controllati e vengono monitorati il livello di crescita, la corporatura, lo stato di salute. Dopo 12 settimane tutti i polli vengono uccisi, di nuovo controllati, e valutati in base alla qualità e consistenza delle loro carni.

Concorsi locali si tengono nel 1946 e nel 1947. I vincitori vanno a costituire il gruppo di 40 finalisti autorizzati a partecipare al grande concorso nazionale per il Pollo del Domani. Nella categoria purosangue a vincere, sia nel 1948 che nel 1951, è la Arbor Acres, grazie al suo White Rocks, che viene preferito al Red Cornish della Vantress Hatchery. Dall’incrocio tra queste due razze nasce quella che finirà per dominare geneticamente a livello mondiale.

La Arbor Acres era di proprietà di Frank Saglio, un immigrato italiano che, agli inizi, si guadagnava da vivere coltivando e vendendo ortaggi nella piccola fattoria di famiglia a Glastonbury, nel Connecticut. Fu suo figlio Henry ad iniziare l’allevamento di polli, per soddisfare il mercato locale. E furono proprio i polli di Henry a vincere il concorso per il Pollo del Domani, lanciando così i Saglio nel mondo dell’allevamento industriale. Ben presto la Arbor Acres, oltre a fornire riproduttori,inizia a sviluppare tecniche di allevamento (e impianti di produzione) atti ad ottimizzare e migliorare la resa degli animali. Spinto dalla richiesta dell’industria di trasformazione delle carni per quantità sempre maggiori a prezzi sempre più bassi, il settore avicolo, con la Arbor Acres in testa, viene sottoposto ad una sempre più spinta integrazione verticale, con aziende che controllano ogni step della produzione, da quella delle uova da schiusa a quella degli allevamenti, dalla produzione di mangime alla macellazione e lavorazione.

Nel 1964 la svolta.

Nelson Rockefeller acquista la Arbor Acres attraverso la sua International Basic Economic Corporation (IBEC).

Rockefeller lascia ogni incarico governativo lo stesso anno in cui la A&P lancia il suo concorso (era stato sottosegretario per i rapporti con l’America Latina sotto Rooselvelt) e nel 1947 fonda due organizzazioni, con lo scopo di mettere in pratica la sua politica di assistenza ai paesi in via di sviluppo, alternativa a quella indicata dal presidente Truman nel suo “Point Four Program” (ovvero sovvenzionare ed aiutare la crescita tecnologica ed economica dei paesi poveri come mezzo per combattere il propagarsi delle idee comuniste, dimostrando come il capitalismo ed il liberismo potessero garantire, essi soli, un alto tenore di vita).

Le due organizzazioni sono, una, il braccio politico (la AIA, American International Association for Economic and Social Development) ed una (appunto la IBEC) il braccio economico.

Attraverso la AIA e la IBEC Rockefeller porta avanti l’opera di trasferimento di capitali e tecnologie statunitensi in paesi dell’America Latina come Brasile e Venezuela. Scopo: piantare i semi per lo sviluppo di un moderno sistema capitalistico e consumistico. I primi finanziamenti di cui gode la IBEC arrivano da Nelson Rockefeller stesso (3 milioni di dollari) e dalla Standard Oil (21 milioni di dollari). Gli investimenti della IBEC coprono settori quali il tessile, la grande distribuzione, l’edilizia abitativa, l’industria agroalimentare e, appunto, la produzione avicola.

Dietro la cortina umanitaria, del creare una classe media abbiente in paesi governati da regimi autocratici e con un alto livello di povertà, la finalità della IBEC è combattere la sua propria guerra fredda. Per citare proprio Nelson Rockefeller, “è difficile essere comunista quando si ha la pancia piena”. Non è un caso se le attività della IBEC si concentrano laddove le attività estrattive della Standard Oil sono messe a rischio da crescenti movimenti popolari rivoluzionari.

Il modello esportato dalla IBEC mette fuori gioco l’economia agricola di sussistenza a favore di un sistema ad alta densità di capitale. Un sistema che, per funzionare, deve poter contare, dal lato della produzione, su un costante rifornimento di cereali da foraggio e, dal lato della distribuzione, su punti vendita che siano sempre più vicini al modello della A&P piuttosto che ai negozietti da paese o ai piccoli mercati rionali.

Nel 1949 la IBEC fonda una joint venture con la Cargill per la costruzione di silos in Argentina. Da tempo la Cargill stava cercando la via per mettere piede in Sud America, e l’alleanza con la IBEC è la chiave giusta per aprire la porta al suo ingresso nel continente, prima in Argentina poi in Venezuela e Brasile. Nel 2013 la Cargill può vantare investimenti in America Latina per 8 miliardi di dollari, e 25.000 dipendenti.

Parimenti, per la Arbor Acres l’acquisizione da parte della IBEC è uno straordinario trampolino di lancio per la conquista del mercato mondiale. Iniziando con l’America Latina, ben presto il suo giro di affari si allarga all’Africa, all’Asia e all’Europa. Tutt’ora, il 50% dei polli allevati in Cina proviene dallo stock genetico della Arbor Acres.

Nel 1980 IBEC cambia nome in Arbor Acres e negli anni cambia di proprietà varie volte, fino ad essere acquisita dalla Aviagen.

Ma che succede quando metti insieme un’azienda agricola familiare, una catena di supermercati ed una multinazionale? Nulla di buono. Per nessuno.

Cominciando dai polli. Uno studio della Purdue University dimostra come si siano perse, a partire dagli ani Cinquanta, ovvero dopo l’inizio della nostra storia, più della metà delle razze originarie.

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E terminando con gli umani. Delle migliaia di agricoltori che parteciparono al primo concorso per il Pollo del Domani quasi nessuno è sopravvissuto. Le piccole aziende agricole hanno subito la stessa sorte delle razze dei polli. Sono state soppiantate da poche, gigantesche realtà. I pochi che ancora resistono si trovano a dover subire il ricatto delle immense industrie di trasformazione e distribuzione, che impongono i loro prezzi ed i loro ritmi e sistemi produttivi.

Le modifiche genetiche a cui gli animali sono stati sottoposti negli anni per incrementarne in modo abnorme ed innaturale la crescita e le dimensioni, le condizioni in cui sono costretti a vivere, in allevamenti al chiuso, con altissimi gradi di sovraffollamento e di stress, e la sempre più ridotta varietà genetica, implicano una sempre più alta incidenza di malattie. E quindi un sempre più massiccio ricorso a medicinali ed antibiotici. E quindi una sempre maggiore resistenza batterica agli antibiotici stessi. E quindi un sempre maggiore rischio per la salute umana.

Quando Henry Saglio muore, nel 2003, viene definito dal The New York Times “il padre della moderna avicoltura”. Un padre pentito, che tre anni prima prova a fare timidi passi indietro creando la Pureline Genetics, con la quale tenta (invano) di introdurre nel mercato animali non trattati con antibiotici.

Al contrario di Henry Saglio, a tredici anni di distanza, si continua a correre a testa bassa verso la chimera della crescita illimitata, incuranti dei disastri sociali ed ambientali. Incuranti del male senza fine perpetrato verso coloro che abitano gli scantinati del nostro grattacielo.

Ribelliamoci

IT

Poche settimane fa è attendato qui a Novate il circo Kino.

Lo stesso circo Kino che, pochi giorni prima, era rimasto coinvolto in un’indagine dei carabinieri, che avevano trovato ben dieci lavoratori non in regola, completamente in nero. Prassi questa diffusa nei circhi, stando a quanto emerso durante la stessa indagine, che ha coinvolto sei circhi attendati nel milanese. Inutile dire che in tutti e sei la situazione era la medesima, se non peggiore.

Non ostante questo, il circo Kino (come gli altri), ha continuato (e continua) a spostarsi di comune in comune.

Allegramente sfruttando lavoratori a due gambe e schiavi a quattro.
Sicuri della propria impunità.

Mentre i circo era attendato qui, sono passata con cane Maggie.
Non che mi aspettassi nulla di diverso, ma la condizione di detenzione degli animali era – come in tutti i circhi – drammatica.
Una capra chiusa in una gabbia di metallo poco più grande di lei.
Tre cammelli in un recinto di dimensioni ridicole.

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Eppure esisterebbero dei regolamenti.
Ad esempio i criteri emanati dal CITES.
Che, per i camelidi, impongono, per le strutture esterne, che “Lo spazio minimo deve essere di 300 m 2 per 2-3 esemplari (50 m 2 per ogni animale in più). […]. Gli
animali devono averne libero accesso per almeno otto ore al giorno. […] Devono essere forniti rami per stimolare l’interesse degli animali. Gli animali devono poter accedere ad un’area protetta dal vento e dalle intemperie”.

Eppure i controlli, in teoria, vengono fatti. Ad esempio il circo Kino, nel 2013, a Vimodrone, è stato visitato dal comandante della polizia locale, dall’assessore all’ambiente, e da un responsabile dell’Ufficio Diritti Animali. Che hanno trovato – inutile dirlo – tutto in regola.

D’altra parte anche a Green Hill, per chi aveva il compito di far rispettare le leggi sul “benessere animale”, era tutto in regola. Anche nel macello di Ghedi. Anche nella stalla di Suzzara, da dove arriva Polz.

Vien da pensare che leggi e norme e criteri vengano emanati solo per questione di immagine. Per nascondere dietro una cortina di belle e rassicuranti parole la vera verità: per gli inferiori (siano essi animali o lavoratori clandestini) speranze non ce ne sono.

Se non quella della ribellione.

Come hanno fatto i tre cammelli (per la seconda volta, che già ci avevano provato tre anni fa a Gandino, in provincia di Brescia) che ieri notte hanno travolto la cancellata e si sono dati alla fuga per le vie di Cesate.
Purtroppo, come prevedibile, il loro assaggio di libertà è durato poco. Le forze dell’ordine, che sanno sempre da che parte stare, li hanno prontamente catturati e riportati indietro.

Dovremmo seguire il loro esempio. Provare ad alzare la testa. Cambiare le cose. Ribellarci. Non aspettare che le istituzioni, i parlamenti, le guardie, costriscano per noi gabbie più grandi, più confortevoli, comode e spaziose.