Prologo
Era aprile.
La situazione era a un punto di stallo.
Da un giorno all’altro era attesa la decisione della XIV Commissione del Senato sull’ormai famoso emendamento all’articolo 14, il recepimento della direttiva europea1.
Ma le cose non stavano andando bene come avrebbero dovuto.
Oltre ai continui rinvii, la massiccia campagna portata avanti dai vivisettori e dalla lobby del farmaco lasciava intuire come i senatori si sarebbero probabilmente lasciati convincere dalla solita vecchia retorica del “sacrificare un topo per salvare tuo figlio”, finendo quindi per affossare anche quest’unica miglioria a una legge così deprecabile.
Si era a un passo dall’ottenere un minimo risultato, che sarebbe valso la libertà per almeno gli animali rinchiusi dentro Green Hill, e tutto era fermo, congelato, tutto dipendeva da un manipolo di senatori paralizzati dalla paura di scontrarsi con la forza milionaria delle case farmaceutiche, dalla timorosa quiescenza nei confronti dei camici bianchi ben inamidati, e ripuliti dalle macchie di sangue delle loro vittime, dei direttori dei centri di ricerca.
Il lancio della campagna “Altrimenti ci arrabbiamo” ebbe inizio con la pubblicazione dell’elenco dei senatori facenti parte della Commissione.
L’invito a scrivere loro, telefonare, chiedere che si pronunciassero una volta per tutte, e che si pronunciassero a favore dei cani chiusi sulla collina di Montichiari.
Il clamore suscitato dalla nostra azione di marzo, quando eravamo entrati all’alba oltre i cancelli di Green Hill, e serena, gab e paola si erano incatenati alle finestre e alla porta dell’ufficio, mentre claudio, calmo, lucido, aveva trovato lì, a portata di mano, una di quelle bolle di uscita che significavano per chi era lì indicato l’entrata in un incubo da cui non uscire mai più.
Gli striscioni ovunque per le strade d’Italia.
Le migliaia di mail, lettere e cartoline.
Le telefonate continue.
Questo insistente, persistente, incessante protestare da parte di così tante persone, lo vedevo e vedevamo bene, non aveva alcun peso di fronte a quello dei vivisettori.
La doccia fredda arrivò con la reazione, ai limiti del grottesco, della presidentessa della Commissione.
I senatori si sentirono minacciati, avevano paura, vivevano ormai in un clima di violenza e intimidazioni continue che impedivano loro di decidere con imparzialità e serenità.
Loro, al sicuro nelle loro belle case, avevano paura della voce della gente.
Mi chiedevo quale paura dovesse provare un cane nato dentro uno di quei capanni in cima alla collina, strappato alla mamma, caricato su un furgone, rinchiuso in uno stabulario, avanti a sé una vita di violenza e torture di cui non avrebbe mai compreso il motivo.
La presidentessa nella sua dichiarazione definì le proteste come atteggiamento fascista, la nostra lettera inviata per annullare l’incontro come farneticante.
E io continuavo a chiedermi come avrebbe definito la quotidiana violenza nei laboratori se, per un attimo, avesse potuto vederla con gli occhi di quel cane.
Ma quel cane era solo un cane.
Noi un gruppo di visionari.
Le tante persone che in quei mesi avevano dato voce agli animali dei laboratori solo persone, solo voci che bastava poco per non sentire più.
I primi di aprile la Commissione incontrò due rappresentanti dell’Istituto Superiore di Sanità: Monica Bettoni, direttore generale, e il noto vivisettore Rodolfo Lorenzini, direttore del Servizio Biologico e Gestione della Sperimentazione Animale, nonché la dottoressa Gaetana Ferri della Direzione Generale della Sanità Animale dei Farmaci Veterinari presso il Ministero della Salute.
Sembrava la fine di una speranza.
1In quei mesi era in discussione in Parlamento il recepimento in Italia della Direttiva Europea 2010/63/UE sulla sperimentazione animale. Il 1 febbraio 2012 la Camera dei Deputati, sulla spinta del clamore suscitato dal caso Green Hill e dal numero sempre crescente di cittadini (elettori) contrari alla vivisezione, aveva votato con grande maggioranza delle norme restrittive che, pur non essendo assolutamente rivoluzionarie, contenevano dei punti validi. Tra questi, il divieto di allevamento, su tutto il territorio nazionale, di cani, gatti e primati. In realtà, di allevamenti di primati e gatti non ne esistevano (e non ne esistono), e l’unico allevamento di cani era allora Green Hill. Ecco che il recepimento di una simile norma avrebbe significato, una volta per tutte, la chiusura dell’allevamento di Montichiari. Dopo la votazione alla Camera, l’emendamento passò per essere discusso alla XIV Commissione del Senato, che ha competenza sul recepimento degli atti legislativi emessi dalla Comunità Europea. E qui si arenò. Ritardando così di mesi e mesi la chiusura di Green Hill. Condannando a morte, in quei mesi, centinaia e centinaia di cani.
Ma quel martedì sera l’aria sapeva di primavera.
Nel cortile del canile guardavo le stelle, e ogni tanto un ratto che, baldanzoso, attraversava l’acciottolato in cerca di cibo.
Accanto a me cristina fumava una sigaretta in attesa che cominciasse la riunione, tesa.
Eravamo tutti tesi.
Guardavo le stelle, guardavo Lamù, cane beagle grassa e felice, annusare in giro scodinzolando.
Sentivo cristina sospirare.
Lo sapevo che pensava a quei cani che ululavano, là sulla collina, e che ora – nulla di più facile – saranno stati chiusi in qualche laboratorio.
“Spero siano morti, lo spero tanto per loro” mi disse.
Prima che potessi dirle che invece il mio sogno era che fossero vivi, e di poter, come per magia, liberarli tutti e regalar loro la stessa beata vita di Lamù, perché lo sapevo che era quello che loro speravano per ogni secondo della loro terribile esistenza, ecco che arrivarono gli ultimi ritardatari, e si cominciò.
La questione all’ordine del giorno era spinosa.
Si trattava di decidere come comportarci di fronte allo scomodo corteo del 28 aprile.
Il doverci preoccupare non solo delle manovre dei vivisettori, ma anche di quelle di chi – teoricamente – avrebbe dovuto condividere i nostri stessi obiettivi, era veramente deprimente.
Il doversi confrontare con il fatto che Occupy Green Hill stava non solo annacquando il senso della nostra campagna, ma anche creando fratture insanabili al nostro interno, proprio nel momento in cui c’era bisogno di un’azione forte, capace di tenere testa a quel che stava succedendo a Roma, lo era altrettanto.
Di certo non mi era di nessuna consolazione sapere, ora, che il mio naso aveva ragione lo scorso inverno, quando così tanto mi preoccupavo di come si stavano evolvendo le cose.
E non dissi nulla.
Quella sera c’eravamo tutti.
Nervosi, guardinghi, ma c’eravamo più o meno tutti.
Il corteo si sarebbe fatto, sui social network se ne parlava da giorni, dovevamo in qualche modo prendere posizione.
Ma, soprattutto, avevamo una priorità: far capire che la campagna “Altrimenti ci arrabbiamo” era degna del nome che portava.
E questo corteo, dando priorità alle cose che contano, non poteva che apparire sotto una luce ben diversa, come un’occasione irripetibile.
Ma non tutti erano d’accordo.
È vero, la nostra partecipazione avrebbe sollevato critiche come tsunami da parte di chi vedeva – e giustamente – come fumo negli occhi il dar spazio a politici come la Brambilla.
Quando si arrivò alla votazione, e era evidente che il sì avesse la maggioranza, io e cristina ci guardammo negli occhi sorridendo.
Epilogo
E cosi’ eccoci qui, a meta’ del corteo, con uno striscione nero senza il nome del gruppo che a Montichiari questa battaglia l’ha iniziata, l’ha fatta crescere, e l’ha quasi vinta.
Il corteo di per se’ e’ un flop: la partecipazione e’ scarsa, il percorso troppo breve e completamente fuori dal centro abitato.
Dietro lo striscione nero un gruppo di persone, vestite di nero, gli sguardi torvi, il cuore a mille.
Fa caldo, e mi sono vestito troppo pesantemente.
Comincio a sudare.
Anche la notte scorsa ho sudato, mentre continuavo a rigirarmi nella cuccia che insisto a chiamare letto, prigioniero di un sogno strano.
Ho sognato sara che mi guardava sorridente e ripeteva le sue parole pronunciate durante la riunione.
Ho sognato cristina seduta sulla riva di un torrente che mi diceva: “Ecco, guarda, questa si chiama erba, e questa acqua”.
E io ero piccolo e la guardavo curioso e guardavo quelle cose che lei mi indicava.
Come se fossi appena arrivato da un altro pianeta, o appena uscito da una detenzione durata una vita.
Dopo una breve camminata arriviamo ai piedi della collina che conosciamo ormai cosi’ bene.
La testa del corteo, con gli organizzatori, prosegue senza neanche una pausa.
Il nostro brutto striscione invece no.
Ci giriamo e blocchiamo le persone che si trovano dietro di noi.
La strada da percorrere e’ un’altra.
Facciamo una deviazione, su per i campi!
Iniziamo a salire e dietro di noi si forma un serpentone di persone, giovani e meno, tutte con i loro cartelli e gli striscioni, tutte in fila, tutte dirette verso l’allevamento.
In alto il cordone di polizia si compatta.
Ma sono pochi.
Di certo non si aspettavano, oggi, durante questo corteo, nessun guaio.
Il fiume di persone continua a salire fino ad arrivare alle reti, oltre le quali si allineano le file di costruzioni.
Gli ululati dei cani li’ rinchiusi gelano il sangue.
Mentre la folla si accalca addosso al cordone di carabinieri e alla recinzione, alcuni provano a svicolare e raggiungere la parte posteriore dell’allevamento, che non sembra essere sorvegliata.
La folla preme e preme contro le reti, proprio di fronte al capanno numero uno.
Qualcuno si arrampica e riesce a passare dall’altra parte, rimanendo pero’ intrappolato all’interno.
La recinzione e’ fatta in modo che sia impossibile poi uscire.
Allora corriamo dalla parte opposta, oltre il cancello, la’ dove c’e’ il capanno dove sono le mamme con il loro piccoli.
La’ dove anche il mio sogno della scorsa notte mi ha portato.
La’ polizia o carabinieri non ce ne sono.
Sono tutti impegnati a tenere a bada chi ancora cerca di scavalcare, e continua a premere contro la rete (che a un certo punto cedera’).
Cosi’ tagliare la rete, aprire un varco, saltare oltre il filo spinato, entrare e uscire con uno, due, cinque, sei bambinetti dalle orecchie lunghe e i grandi occhi neri e’ questione di pochi minuti.
Quando passiamo il primo cucciolo oltre il filo spinato, cosi’ in alto da sembrare che quasi tocchi il cielo, c’e’ un boato assordante.
Tutti ci guardano.
Anche la polizia, anche la Digos, anche le guardie all’interno.
Siamo noi sotto gli occhi di tutti.
Le forze dell’ordine corrono verso di noi, lungo il corridoio del capanno.
Cercano di fermarci bloccando un piede a uno di noi.
Ma e’ troppo tardi, riusciamo a uscire tutti, un, due, tre, opla’…
Ci seguono dappertutto.
Per chilometri e chilometri, nei campi, lungo il fiume, per la strada.
Ma noi ce la facciamo.
Ci allontaniamo di corsa o in volo, con i piccoli tra le braccia, o nascosti negli zaini, oltre a quelli passati ad altri attivisti amici e portati al sicuro.
Mentre alle nostre spalle ci sara’ chi si accorgera’ del passaggio, e senza pensare ad altro se non a salvare almeno una vita, correra’ e rischiera’ l’arresto per donare la liberta’ quanti piu’ animali possibile, prima che la polizia decida di caricare e di fermarli.
E mentre corriamo per i campi, e assistiamo impotenti all’arrivo della polizia, al fermo di altre persone di gran cuore, a cui vengono strappati i cani dalle braccia per riportarli all’interno di quella galera, ripiombo nel sogno della notte prima.
D’improvviso. È bastata la voce
E’ bastata la voce della mia amica, che mi ricorda la sua predizione.
Mi volto verso la collina, mentre gli altri continuano a correre per i campi.
Il cielo e’ diventato quasi bianco.
Le reti sembrano sempre piu’ piccole, e tutti i capanni hanno finestre, aperte come occhi.
E da quegli occhi li vedo uscire.
Centinaia, migliaia.
Le orecchie svolazzanti, sembrano volare nell’aria tersa.
Eccoli, tutti i prigionieri, quelli di oggi, e tutti quelli di ieri, la’ dentro nati, e torturati, venduti, stuprati e violati negli anni.
Sono di nuovo tutti qui, insieme, e escono a frotte da quegli occhi spalancati.
Bambini, anziani, mamme con i piccoli in fila dietro di loro, maschi dallo sguardo fiero, famiglie intere, amici ritrovati, amori riuniti, tutti liberi.
Sono ore incredibili, mentre si cammina in fila indiana, attenti al passaggio di chicchessia, con il terrore di venir presi, non per noi, ma per quei piccolini che abbiamo appena strappato al loro destino, e che guardano il mondo con occhi spalancati e curiosi.
Il sole, il vento, l’odore dell’erba e l’acqua del torrente, tutte cose che i loro genitori, i loro fratelli, generazioni e generazioni di animali non hanno mai conosciuto.
Arrivati al punto in cui altri ci aspettano con le auto, ci allontaniamo di gran carriera da Montichiari.
Avanti una macchina civetta, pronta ad avvertire in caso ci fossero posti di blocco, e dietro l’auto con i cani e cinque di noi.
Evitando accuratamente l’autostrada e procedendo apparentemente a caso, con i cagnolini sulle ginocchia, che ora giocano, ora guardano fuori curiosi, ora cadono addormentati e stremati, viaggiamo per ore.
E intanto ci arrivano le notizie sempre piu’ sorprendenti di quel che e’ successo su quella collina, dei cani liberati, delle persone arrestate, e di quelle (tante) che invece hanno avuto modo di dileguarsi e salvare il prezioso carico che avevano con se’.
Il mio sogno, e la nostra predizione.
Il giorno piu’ bello della mia vita.
(liberamente tratto da “Fermare Green Hill”)